di Emanuele Ghiani

Il diario del lavoro ha intervistato il segretario generale della Uil Basilicata Vincenzo Tortorelli, per chiedere fino a che punto il sistema lucano si è messo al riparo dalla crisi generata dalla pandemia, che cosa si poteva fare e cosa non si è fatto. Per Tortorelli, sono molte le realtà che ancora non trovano risposta da parte di un governo regionale, incapace di ascoltare le parti sociali, e prima che la situazione diventi realmente ingestibile, il sindacato è pronto a scendere in piazza, pandemia permettendo.

Tortorelli, qual è la situazione economica e sociale della Basilicata in questa nuova fase pandemica?

Esiste una differenza tra la prima fase e la fase 3 ma direi che possiamo anche chiamarla quarta fase. Nella fase uno eravamo in pieno lockdown, tutto era sospeso, lavoravamo e analizzavamo ciò che stava avvenendo, operavano solo i settori primari, invece oggi è una situazione completamente diversa, la pandemia avanza in maniera molto forte e purtroppo anche in Basilicata. I dati della prima ondata erano rassicuranti e non abbiamo avuto grandi stravolgimenti. Abbiamo avuto dei morti ma non paragonabili alla Lombardia o altre regioni. Oggi invece registriamo uno dei periodi più negativi, e se non mettiamo in campo scelte coraggiose e immediate diventeremo presto zona rossa.

Avete proposto di lavorare insieme alla Regione per affrontare la crisi?

Come Uil abbiamo sempre posto al centro una collaborazione e abbiamo proposto al presidente della regione Vito Bardi, l’istituzione di un organo di governo e di emergenza dove dentro ci dovevano essere tutti gli attori sociali per fronteggiare la pandemia. Questo non è stato fatto, la Regione è rimasta dentro i meccanismi autoreferenziali della task force, governata e gestita dalla stessa struttura della Regione, e non è stato colto l’invito di questa cabina di regia ad hoc per governare l’emergenza e le criticità.

I comitati di sicurezza negli stabilimenti sono stati avviati?

Si sono stati istituiti, anche perché erano previsti dal protocollo sulla sicurezza. Sono formati dai delegati sindacali e dai responsabili dell’azienda, o direttore di stabilimento o capo del personale. Effettuano screening quotidiani sui possibili positivi e contagiati dall’esterno, controllano l’accesso allo stabilimento, le distanze di sicurezza e sono dotati di tutti Dpi necessari.

In precedenza aveva suggerito di inserire all’interno dei comitati degli esperti sanitari, come ad esempio dei virologi, è stata accolta la proposta?

No, in tutte le imprese non ci sono esperti che partecipano all’interno dei comitati. Non è stata presa in considerazione perché hanno attuato i protocolli previsti dal governo, con l’Inail, Inps e ministero del Lavoro.  Questi protocolli sono stati delineati e definiti a livello nazionale e noi come territoriali non abbiamo quella forza negoziale. È un peccato, credo che le task force avrebbero potuto fare uno sforzo in più inserendo queste competenze. L’idea è stata tuttavia attuata in Fca e in quel contesto esiste il contributo dei virologi nel loro protocollo di sicurezza.

Il contributo del governo ai patronati è arrivato?

A oggi il governo ha sicuramente coinvolto la competenza degli uffici dei Caf e dei patronati per affrontare l’emergenza, però ci aspettavamo e tutt’ora ci aspettiamo un sostegno forte di riconoscimento di questo lavoro. Hanno fatto bene i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil a chiedere un incontro con il governo e chiedere tra i vari punti anche un sostegno economico ai Caf e patronati. Queste risorse servono per fare continuare a girare la macchina del sistema dei patronati e quindi garantire l’attenzione verso le fasce più deboli. Molti dimenticano che l’Inps nella prima, seconda e ancora oggi terza fase ha chiuso al pubblico molti uffici, dirottando di fatto molte persone in cerca di aiuto e informazioni verso i nostri patronati. Ricordo che le nostre porte sono spalancate a tutti i cittadini, non solo ai lavoratori iscritti.

Siamo a novembre, ad oggi secondo lei che cosa si poteva fare ma non si è fatto per affrontare questa crisi?

La Basilicata aveva bisogno di una sanità che rispondesse efficacemente alla prevenzione e cura della pandemia. Questo ad oggi non è stato fatto. Infatti non è stato istituito un piano di prevenzione, di monitoraggio, di screening per i positivi e gli asintomatici. È difficile gestire una crisi pandemica se non ci si organizza con criterio. Ad esempio gli asintomatici o sintomatici lievi potevano essere collocati dentro delle strutture dedicate per isolarli, evitando in questo modo possibili contagi all’interno del nucleo familiare. Oppure si potevano attrezzare da tempo i due ospedali da campo che il Qatar aveva donato alla Basilicata, visto che ancora oggi non sono operativi.

Perché non sono ancora funzionanti?

Non sappiamo e non ci è chiaro di chi sia la responsabilità di questa leggerezza. Credo che gran parte sia imputabile alla Regione. Non è possibile trattare con sciatteria questi doni, possiamo comprendere le difficoltà economiche ma si poteva comunque fare pressione al governo per avere i fondi necessari all’avvio di queste strutture.

Ci sono altre criticità che potevano essere risolte da tempo?

A oggi mancano ancora centinaia di medici e infermieri. Si possono comprare mascherine e ventilatori ma non medici, visto che servono anni per formarli e istruirli. Si poteva e si doveva pensarci prima. Inoltre non è stata accolta la nostra idea, che le illustrai la scorsa volta ad aprile, ossia di chiedere 200 milioni di euro di anticipo alle Royalty del petrolio presenti nella nostra regione. Queste risorse potevano contribuire rapidamente alla casse regionali per resistere all’impatto della pandemia, per sostenere le famiglie, imprese, sanità e così via. Un vantaggio non sfruttato, eppure i player ci sono, ma la Regione non ha accolto il nostro invito. Le decisioni le prende la politica, ma lo faccia e in fretta.

Avete chiesto altri incontri con la regione Basilicata?

Si, continuiamo a chiedere incontri e abbiamo chiesto il motivo per cui a Roma i sindacati Cgil, Cisl e Uil si siedono con il governo e trovano una intesa, come il blocco dei licenziamenti fino al 31 marzo e l’utilizzo della cassa integrazione Covid, mentre qui a livello regionale non si riesce a trovare un tavolo di confronto simile? L’autoreferenzialità non serve a nessuno in questo momento, a meno che non ci sia una strategia e un governo forte a tenere il timone, ma vedo poche idee e paura di decidere.

Pensate di mettere in campo altri metodi di pressione più forti per farvi ascoltare, come scioperi, sit-in, manifestazioni?

Per gli effetti inquietanti che in questi giorni la pandemia porta anche in Basilicata, se non trovassimo ancora risposte o segnali di confronto dopo il buon senso, tutta la pazienza avuta da aprile a oggi per essere soggetti di proposta, credo che al sindacato non resterebbe altra scelta che convocare momenti di assemblee con i lavoratori, cittadini, la comunità lucana e arrivare a una forte mobilitazione. Sarà un confitto inevitabile, pandemia permettendo.

Perché avete tenuto una linea morbida fino ad adesso?

Abbiamo tenuto una linea di responsabilità, sia per non aggravare i contagi sia perché vogliamo il confronto, ma non hanno raccolto i nostri inviti costruttivi. Tenga presente che prima della pandemia, a metà ottobre del 2019, abbiamo presentato il manifesto per il lavoro, una proposta organica per il rilancio della Basilicata. Ancora, un’altra iniziativa mai vista in 20 o 30 anni nella nostra regione, abbiamo tenuto a febbraio gli Stati generali del lavoro. Con Cgil, Cisl e Confindustria abbiamo costruito un patto dei produttori “La Basilicata non può aspettare”. Dopo aver fatto tutto questo, dopo esserci organizzati insieme alle imprese, fatto che di per sé ha dell’incredibile se pensiamo al rapporto di oggi con Confindustria, cosa deve fare il sindacato? L’obbiettivo era di dare alla giunta regionale un terreno di idee concrete, ci abbiamo messo tutto il nostro impegno e continueremo a mettercelo.

Perché l’immobilismo uccide.